Lucia Coppola - attività politica e istituzionale | ||||||||
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Comune di Trento
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Trento, 26 gennaio 2011 Da donna a donna (ma non solo). Questa era la parola d’ordine, qualche anno fa (mi sembra sia passato un secolo...), che sanciva la comunicazione, l’empatia, l’affettività, la comunione d’intenti e la confidenza feconda che univa con un filo sottile ma tenace le tante storie, i tanti volti delle donne. E li trasformava in saperi, recuperando anche quelli antichi. In conoscenza e in ricerca di politiche che avessero al centro i problemi delle donne, le loro necessità e la loro gioia, e fatica, di vivere. Non era solo politica attiva, era anche consapevolezza di genere e orgoglio, era speranza. Ora mi capita di pensare dove tutto questo sia finito. Perché mi sento immersa quotidianamente nell’inguardabile e nell’inascoltabile. È, a volte, una sensazione disperante che credo mi accomuni a tante donne della mia generazione, ma non solo. Abbiamo cresciuto figli maschi tentando, spesso con ottimi risultati, di mostrare con l’esempio che la fatica delle donne merita rispetto e considerazione, che il lavoro rende libere, regala autonomia e decoro. Che il lavoro domestico e la cura dei figli vanno condivisi, per giustizia e solidarietà ma anche perché creano legami e opportunità di conoscenza reciproca. Abbiamo cresciuto figlie femmine, e ora tenere nipotine, cercando di trasmettere, con i saperi delle donne, con la narrazione e le biografie familiari, il rispetto di sé, la voglia di sperimentarsi e di crescere. L’importanza dello studio e della cultura. Molte di noi sono state insegnanti che all’interno delle classi hanno dato valore anche al «femminile», chiamandolo per nome, stigmatizzando la sopraffazione e, per contro, l’eccessiva arrendevolezza. Richiamando i valori costituzionali dell’eguaglianza di opportunità. Trasformando il maschilismo «in nuce», che appartiene anche a qualche maschietto, in forza benefica, in coraggio, in tenerezza. Anche i bambini possono piangere e anche le bambine possono giocare a calcio. Concetti semplici, come scrivere sulla lavagna al maschile e al femminile, come valorizzare le competenze reciproche e renderle trasmissibili. Ora, io, come tante e tanti, assisto con occhi asciutti e stupiti alla sconcezza di certe immagini degradanti. Alla svendita di corpi ed anime come ai saldi di gennaio: affollati, confusi, urlati. Sono ragazze giovani dai visi già deturpati dal silicone, dai seni enormi e innaturali. Occhiali firmati e grandi borse dove nascondere il niente che è la loro vita. Ragazze che fuggono dalle residenze prepagate di Milano 2, coperte dal burka come donne afgane; non spuntano nemmeno gli occhi dal passa montagna degno di un tupamaros, sciarpe e cappelli a coprire la vergogna. Sono altrettanto violate e oltraggiate delle donne dei paesi in cui vorremmo esportare la democrazia. E questi modelli culturali? Scappano dalle famiglie che da lontano seguono i loro successi nel bunga-bunga di Stato, disquisiscono e consigliano circa la quantità dei regali e dei bonifici. Mille euro? Ma come, solo mille euro? In fondo è su per giù lo stipendio di un metalmeccanico, il doppio di una pensione minima! Settemila euro? Sì, con quelli si comincia a ragionare. E i papà, le mamme e i fratelli si raccomandano di alzare il tiro. Non è sui loro corpi e nei loro cuori, in fondo, che avviene il misfatto, quello che ti trasforma in oggetto di godimento per anziani che hanno perso la ragione e il senso del limite. Che comprano le vite altrui creando le premesse per una bassezza morale dalla quale difficilmente si potrà riscattarsi. Che dire? Che dire di questo paese dove nei bar si sente la gente discutere: «Beato lui, che può! In fondo fa tutto a casa sua e con i suoi soldi, le ragazze sono consenzienti!». Ancorché, talvolta, minorenni. Che male c’è nel soddisfare le fantasie perverse di persone che dovrebbero ormai darsi pace e pensare all’anima? Quelli come me, nati nel dopo guerra e cresciuti in famiglie dignitose, non ha importanza quanto ricche e quanto colte, dove ogni tanto si beccava uno scapaccione salutare se ci si comportava male, dove i «no» erano più frequenti dei «sì» e si scopriva ogni giorno il valore delle cose e dei piccoli privilegi, dove alcuni valori erano sacri e non servivano tante prediche ma contava di più l’esempio, quelli come me, dicevo, non possono non avvertire cocente il rimpianto per quel mondo perduto. Al quale ti ribellavi, come è giusto che ogni giovane faccia, ma che restava lì, a proteggerti, ad insegnarti la strada quando la smarrivi, ad accoglierti quando eri disorientato e triste. Il viso di tua madre che ti osservava dalla finestra quando te ne andavi e sorrideva, era la garanzia di protezione e al tempo stesso la via da seguire. «Il mondo è tutto tuo, ma io ci sarò sempre per te». Questa era la comunicazione che passava. E tu provavi, sbagliavi e riprovavi. Il cielo sopra la testa e nel cuore la tua coscienza a dirti cos’era giusto o sbagliato. Chi accoglierà ora queste giovani sfrattate dal lettone di Putin? Genitori come papponi? Fratelli approfittatori? Mamme che intercedono per un seno nuovo? Ingombrante come un peso sul cuore. Chi parlerà con queste ragazze dalla vita pesantemente segnata, facendole riflettere su parole come dignità, rispetto, cura di sé, amore, sessualità, amicizia? Ma anche, necessaria distanza generazionale, e poi politica, istituzioni, valore di una carica pubblica da vivere, anche nel privato, con onorabilità. Una delle cose che più mi fa arrabbiare nella lettura dei giornali (sui quali ci sono spesso anche splendidi articoli, letti in Italia purtroppo solo da due persone su dieci), o nei dibattiti televisivi, è l’accusa, rivolta a chi condanna comportamenti intollerabili dal punto di vista istituzionale e sconci dal punto di vista etico, l’accusa, dicevo, di «moralismo». Non siamo alla moda, siamo antichi e ipocriti. E ce ne vantiamo! Penso, per concludere, a tutte le giovani donne e ai ragazzi, colti, informati, professionalmente pronti a rivestire ruoli di tutto rispetto, costretti ad andarsene da questo «paese per vecchi», bavosi, mi verrebbe da aggiungere, a salire sui tetti delle fabbriche, delle scuole e delle università per rivendicare attenzione, diritti, rispetto. Per chiedere lavoro, dignità del lavoro, e futuro. Penso a loro e spero in un moto d’orgoglio che risollevi noi tutte tutti da questa palude dove sta affondando la storia del nostro paese, le sue conquiste, la sua cultura. E la meglio gioventù. È tempo di risollevare la testa e di far sentire forte la nostra voce. Lucia Coppola
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LUCIA COPPOLA |
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